La classifica: i tre argomenti preferiti dell’indipendentismo sardo

La classifica: sono tre gli argomenti più gettonati dagli indipendentisti sardi.

Vediamoli criticamente uno ad uno, cercando di capire perché all’elettorato sardo non interessano, e di quali argomenti invece si dovrebbe dibattere.

O meglio, quali sono le ragioni dell’autonomia e dell’indipendentismo sardo nel XXI° secolo? E perché dobbiamo destrutturare e rinnovare la cultura politica sardista?

Di Adriano Bomboi.

1 – La caccia al sabaudo. Diciamoci la verità, non c’è denominazione stradale, di piazza, vicolo, mezzobusto, statua, biscottino o manifestazione riguardante i Savoia che non faccia schiumare di rabbia tanti indipendentisti sardi.
Certo, una delle numerose concause dell’attuale sottosviluppo dell’isola deriva dal suo passato storico e indubbiamente dall’aver avuto al comando una delle più inadeguate monarchie d’Europa. Ma nel 2021, continuare a maledire personaggi morti e sepolti da tempo rappresenta un comodo rifugio per non affrontare i ben più complessi problemi del presente.
L’operato dei Savoia è stato inoltre ampiamente strumentalizzato dalla narrazione indipendentista: pensiamo al “pinoaprilismo” dei libri di Francesco Casula, o al vittimismo di quelli di Omar Onnis. Il primo ha importato in Sardegna tutto il mitologico armamentario del meridionalismo neoborbonico, in cui i Savoia sarebbero stati solo esseri spietati e infami. Mentre col secondo abbiamo maturato l’idea che esista un immaginario complotto dell’accademia sarda o italiana per negare ai sardi un’adeguata conoscenza dell’opera sabauda nell’isola.
Nella realtà la storiografia sarda presenta oggi dei lavori assolutamente pregevoli e del tutto neutrali, in cui sono note luci ed ombre dei Savoia. Sia il loro carattere ondivago e sprezzante nei confronti della popolazione locale; sia, comunque, la volontà, seppur maldestra e fallimentare, di far crescere il piccolo Regno di Sardegna per avvicinarlo agli standard dei grandi Stati europei a loro contemporanei.
Ma come far arrivare ai sardi e nelle scuole sarde queste opere se gli stessi indipendentisti che pretendono di istruire i sardi non le conoscono o non le tengono in considerazione? E d’altronde, in primis, bisognerebbe pure farsi eleggere e governare.
Cambiare il nome di una strada o spostare una statua sarà doveroso, ma consentitemi di dire che oggi tutto ciò non è in cima alla lista dei problemi dei sardi.

2 – Assalto al poligono. Eh si, diciamoci pure quest’altra verità: non c’è base militare, divisa, pattuglia di Polizia o di sceriffi locali che non faccia salire la pressione a tanti indipendentisti sardi.
Certo, la più alta concentrazione di installazioni militari d’Italia non è un vantaggio per l’isola, ma un peso da riequilibrare.
Ciò che tanti indipendentisti non afferrano però è che i tantissimi ettari destinati ai poligoni militari non sono la causa dei problemi dell’isola, ma una conseguenza dei secondi. In altri termini, sono l’esito di una politica che, nonostante la fine della guerra fredda, ha scommesso sulla presenza militare come strumento di welfare per generazioni di sardi che non hanno avuto altre alternative al posto pubblico garantito da tale professione.
Oggi tanti indipendentisti dovrebbero uscire dal 1968 e comprendere che i militari non sono corpi estranei al popolo sardo, ma professionisti meritevoli di rispetto. Uomini con famiglia che operano in un ambiente che dovremmo cercare di ridurre, governando, per offrire alternative di lavoro a chiunque volesse intraprendere la carriera militare, non per passione o spirito di servizio, ma poiché obbligato dall’assenza di prospettive nel locale mercato del lavoro.
In Scozia lo Scottish National Party ha conquistato il voto di tanti operatori di pubblica sicurezza grazie a questa linea, mentre in Sardegna siamo ancora ben lontani dall’aver compreso quale interesse pubblico perseguire.

3 – Gogna allo speculatore ambientale. In Sardegna esiste una grande favola, ossia l’idea che buona parte delle grandi strutture ricettive sarde sia in mano a non sardi, e che generino un indotto locale modesto, a fronte dei più significativi danni ambientali da loro causati. Questa narrazione è il frutto di luoghi comuni che affondano le loro radici in un trasversale analfabetismo economico, peraltro alquanto diffuso nei comuni interni all’isola (in cui gli indipendentisti sono relativamente presenti in alcune amministrazioni locali).
Nella realtà infatti il turismo rappresenta il 7% del PIL regionale, più l’indotto direttamente e indirettamente connesso a tale presenza. Traduzione per neofiti: non significa che vi lavori il 7% dei sardi. Migliaia di famiglie sarde ogni anno in tutte le coste dell’isola, e in particolare in Gallura, traggono redditi soddisfacenti. Sia i titolari sardi dei grandi alberghi (con veri e propri imperi immobiliari a 4 e 5 stelle), che tanti indipendentisti non conoscono; sia i tantissimi sardi che lavorano, direttamente e non, con tali presenze. Non solo camerieri e chef, e non solo muratori e falegnami, ma baristi, ristoratori, elettricisti, commercianti, corrieri, giardinieri, immobiliaristi, noleggiatori, parrucchieri, panettieri, idraulici, farmacisti, meccanici, etc. Praticamente tutti.
Un mondo del tutto sconosciuto nelle zone interne dell’isola, che ha un turismo ben più modesto e una collettività spesso assistita e dipendente dalla spesa pubblica. Perché se la grande sfida dei centri costieri è quella di diversificare meglio l’economia rispetto alla monocultura turistica (come argomentato anche nel mio libro “Problemi economico-finanziari della Sardegna”, Condaghes 2019), quelli interni hanno necessità di uscire da una concezione museale dell’ambiente che invece porta all’abbandono e all’incuria dello stesso. Oltre che al declino economico, di cui sono già afflitti.
Sostenibilità ambientale e sviluppo economico possono muoversi di pari passo con un equilibrato rapporto tra le due esigenze.
Quando larga parte dell’indipendentismo comprenderà questo e altri problemi, saprà lavorare ad una proposta politica che non riguardi solamente il settore primario dell’economia, o le zone interne, ma l’intera collettività sarda.

La grande sfida del presente deve vedere le nostre forze politiche seriamente impegnate, non a perdere tempo su questi tre argomenti (che sono secondari, e conseguenti ad una generale riforma dell’approccio politico-economico allo sviluppo), ma occupate a sviluppare una forza di governo che abbia pochi ma fondamentali obiettivi:

1) ridurre il ricorso all’indebitamento e la spesa pubblica, razionalizzandola a vantaggio non della quantità ma della qualità;

2) snellire la macchina burocratico-amministrativa a vantaggio di imprese e cittadini;

3) calibrare un fisco competitivo e asimmetrico tra zone interne e costiere in grado di attirare nuovi investimenti;

4) investire sull’istruzione e sul potenziamento della formazione, plurilinguismo incluso;

5) promuovere una diversificazione dell’economia, se necessario, superando anche tradizionali, romantici e assistiti modelli economici in favore dell’innovazione e nel campo delle nuove tecnologie.

Non c’è un argomento più importante degli altri, tutti richiedono riforme di governo e sono tutti fattori necessari e propedeutici a far vivere una popolazione, qualsiasi popolazione, ad uno standard accettabile di benessere. Solo a quel punto sarà la comunità stessa a chiedere più autonomia, od un’autentica autodeterminazione da eventuali e inadeguate istituzioni centrali.
Il lavoro è immane, irto di ostacoli e potrebbe richiedere decenni. Ma sinora i decenni li abbiamo persi dietro ad obiettivi sbagliati.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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