I sardi della Costa Smeralda

Costa Smeralda & luoghi comuni: Secondo alcuni, i camerieri sarebbero schiavi sottopagati e sfruttati. Mentre quelli che servono ai tavoli a Villasimius, Pula, Arbatax, Torregrande e Stintino godrebbero di ricche retribuzioni. […] Non ci indigna, invece, che un consigliere regionale da 20mila euro al mese sia servito in un ristorante della Marina di Cagliari da un cameriere sardo che guadagna meno di un decimo di lui e lavora dieci volte di più. […] Una certa visione romantica del passato si scontra con la realtà della Costa prima dell’Aga Khan: Monti di Mola non aveva strade, acqua corrente, energia elettrica, la malaria colpiva spesso la sua comunità – Di Francesco Giorgioni.

Voi avete mai sentito parlare di Abbiadori?
È una frazione del Comune di Arzachena, nel cuore della Costa Smeralda. È abitata tutto l’anno da alcune centinaia di persone suddivise tra le famiglie storiche residenti in questi posti davanti al mare, ben prima che l’Aga Khan sbarcasse a Monti di Mola.
Abbiadori è una comunità. Vive principalmente dall’economia del comprensorio turistico sviluppatosi attorno a lei, ha la sua parrocchia, a Porto Cervo, onora i propri santi e rispetta le tradizioni di sempre, la sera la gente si ritrova al bar e la domenica le compagnie di caccia si riuniscono per la battuta.
Quasi tutti parlano un gallurese schietto.

Nel ribollire del dibattito sul turismo che vorremo e mentre infuriava il derby tra quelli che “sappiamo tutto, i consigli teneteveli” e quelli che “forse c’è sempre qualcosa da imparare ed è meglio ascoltare”, non poteva mancare la solita eruzione di odio verso il modello Costa Smeralda.
“Il nostro turismo non è la Costa Smeralda, la Costa Smeralda non è Sardegna”, spiegano quelli che, a modo loro, credono di combattere i luoghi comuni contro l’Isola, opponendo rivendicazione indipendentiste e gridando contro una presunta colonizzazione.
La narrazione è più o meno questa: “Terre sottratte alla Sardegna per un piatto di minestra, poche lire o un posto di lavoro, finite poi nelle mani di invasori armati di denaro che ne hanno fatto un’enclave vietata ai sardi, relegandoli nel migliore dei casi a fare i camerieri”.
L’intruso andrebbe cacciato, insomma.
Secondo questa versione, i camerieri della Costa Smeralda sono in genere schiavi sottopagati e sfruttati, privi di ogni diritto e tutela, ignoti ai sindacati e ai contratti di categoria. Mentre quelli che servono ai tavoli a Villasimius, Pula, Arbatax, Torregrande e Stintino godono di ogni privilegio e di ricche retribuzioni.
Esasperando questi concetti, si getta la Costa Smeralda nello stesso calderone delle terre espropriate per farci i poligoni militari o destinate ai poli petrolchimici: un furto alla Sardegna, porzioni di terra estorte e sottratte al controllo dei suoi abitanti.

Nulla di nuovo, si dirà. È un modo di raccontare la Costa Smeralda conosciuto da quando la stessa Costa Smeralda esiste, vivo da sempre, figlio principalmente di una lettura ideologica, da lotta di classe: che al grand hotel di Porto Cervo il miliardario russo sia servito al tavolo dal cameriere sardo e che un lavapiatti sardo pulisca le stoviglie in cui quel miliardario ha mangiato, sono immagini che continuano a farci vibrare d’indignazione.
Non ci indigna, invece, che un consigliere regionale da 20mila euro al mese sia servito in un ristorante della Marina di Cagliari da un cameriere sardo che guadagna meno di un decimo di lui e lavora dieci volte di più.
Nessuno dice mai che per diventare direttori di un albergo bisogna prima imparare a fare i camerieri.
Alla fine, la contesa si risolve in un duello tra sardi.
Sardi contro altri sardi, sardi che conoscono superficialmente una certa realtà dell’Isola e pretendono di condannarla, a spese di sardi che in quella Sardegna hanno trovato lavoro e opportunità. Questi ultimi, ovviamente, reagiscono difendendo quel poco che si sono lavorati e respingono con rabbia questa aggressione.

Cinquantacinque anni dopo, sarebbe anche il caso di dirci le cose come stanno e di contestualizzare i fatti calandoli nella realtà storica del periodo in cui questa impresa turistica è nata.
La Costa Smeralda non ha risolto i problemi della Sardegna ed ha in parte tradito le attese: le stagioni durano tre mesi, la penetrazione dei prodotti sardi è marginale, l’economia resta per buona parte in mani d’altri, la tentazione di disperdere quanto di buono costruito in speculazioni immobiliari di poco conto è sempre in agguato.
Tutti limiti che chi scrive ha denunciato più volte, da anni a questa parte.
Ma dire che le cose possano andar meglio non significa che tutto vada male e debba essere buttato via.
Io credo che la Costa Smeralda sia una risorsa importante e se sottolineo quel che non funziona è perché credo possa produrre molta più ricchezza ed opportunità, non perché voglia cancellarla dalla storia.

Riavvolgiamo il nastro.
Vi raccontano che le terre della Costa Smeralda siano state sottratte con l’inganno ai proprietari, che in genere vengono liquidati come bifolchi incapaci di comprendere la ricchezza che possedevano.
Esemplare è la storiella del “voglio milioni, non miliardi!”, attribuita al vecchio possidente Ghilardi, imperativo surreale che gli sarebbe scappato di bocca quando era in procinto di vendere le sue terre: in realtà si tratta di un’invenzione e quella frase nessuno può confermarla, perché Ghilardi il valore del denaro lo conosceva benissimo.

Siccome le chiacchiere e le interpretazioni di maniera lasciano il tempo che trovano, molti anni fa trascorsi un periodo dividendomi tra l’archivio del Comune di Arzachena e le interviste ai vecchi proprietari terrieri e agli amministratori comunali superstiti, testimoni oculari di quel cambio di passo.
Ne ricavai una tesi di laurea e un documentario, intitolato da “Lu monti a Lu monti”.
Non ne trovai uno, tra gli intervistati, che si fosse pentito di quelle vendite e che recriminasse sul corso della storia. La poetica del vecchio stazzo e delle coste incontaminate è molto romantica e colpisce anche me, che in uno stazzo ho passato l’infanzia, ma sentire i racconti di chi a Monti di Mola ci viveva ha forse più valore rispetto a certe interpretazioni affrettate.
Quei racconti parlano di sofferenze, di capre, fave e piselli, di economia di pura sussistenza. L’economia del pastore era nella sua cassapanca di provviste, scrisse Bachisio Bandinu.
Monti di Mola non aveva strade, acqua corrente, energia elettrica, la malaria colpiva spesso la sua comunità. Nel 1946, a Monti di Mola un bambino di due anni venne colto dal morbo trasmesso dall’anofele: non c’era nessuno che potesse curarlo e il padre, disperato, lo caricò sul rimorchiatore della Marina militare che due volte alla settimana faceva la spola tra La Maddalena e l’imbarcadero di Capo Ferro, nei pressi di Porto Cervo.
A La Maddalena un farmacista gli regalò alcune dosi di chinino e così riuscì fortunosamente a salvare il figlio, altrimenti destinato a morte sicura.
Riporto queste testimonianze sulla vita di quel tempo, in quei luoghi, perché giudicare fatti e scelte lontane, sulla pelle degli altri, è sempre un azzardo.
Se vi foste trovati di fronte gente disposta a comprare a buon prezzo terre che non vi permettevano di andare oltre la sopravvivenza, voi cos’avreste fatto?
Avreste preferito la poetica dello stazzo e delle coste incontaminate alla certezza di una vita migliore per voi e i vostri figli?
Vedere cadere lo stazzo dove è nato mio padre, a Luogosanto, mi fa piangere il cuore. Ma sarei un ingrato se gliene facessi una colpa, se lo accusassi di aver inseguito un futuro dove le condizioni lo permettevano.
Ci sarà qualcosa di diverso, dai migranti di oggi?

Delle vendite ho scritto: a buon prezzo.
Oggi si può ironizzare sui 3 milioni e mezzo di lire versati da Kerry Mentasti, padrone della San Pellegrino, per accaparrarsi i 81 ettari dell’Isola di Mortorio, che fino al 1953 apparteneva al tabaccaio di Arzachena Luigino Demuro.
E ci si può persino indignare per i 16,5 milioni pagati dal patto di sindacato inglese di cui faceva parte l’Aga Khan, che nel 1961 acquistò da Quirico Linaldeddu i 29 ettari di terra dove oggi sorge l’hotel Romazzino.
Mi disse in quelle interviste Giommichele Digosciu, maestro elementare, consigliere comunale dal 1964 al 1989 e sindaco di Arzachena dal 1970 al 1975: “Per quanto strano possa sembrarvi, per quel che valevano quei terreni erano ben pagati, considerando che per costruirvi un comprensorio turistico andava realizzata ogni infrastruttura e gli investimenti dovevano necessariamente essere ingenti”.
Quanto alle trattative, passano come formalità, come fulminee apposizione di firme a contratti preconfezionati.
Non è vero manco questo.
Ci fu chi non capì che poteva negoziare e cedette subito senza discutere, ci fu chi vide più lontano e costrinse il segretario generale del Consorzio Felix Biggio, delegato alle trattative, a sessione estenuanti durate tre giorni.
Semplicemente perché voleva sì vendere, ma non tutto. E alle sue condizioni
Ed ecco perché, tra le ville e gli alberghi, molte proprietà sono rimaste in possesso delle famiglie del luogo, anche oltre il villaggio di Abbiadori.
Potrei menzionare Martino Azara, oggi 87enne, capostipite di una famiglia di albergatori inventatisi dal nulla. Era un operaio dell’Erlaas, l’ente per l’eradicazione dell’anofele, e possedeva dei terreni a Capriccioli, oggi una delle spiagge più fotografate della Costa Smeralda. Lasciò il lavoro e decise di costruire un ristorante, inizialmente barattando il pesce con i pescatori ponzesi che sbarcavano da queste parti, ai quali offriva in cambio pane e vino. Lo presero per pazzo, ma il suo ristorante è diventato col tempo un albergo e 53 anni dopo “Il pirata” è un marchio prestigioso di questo turismo.
Insomma, chi ha voluto provarci ci è riuscito.

Racconto tutto questo per spiegare che i fatti furono molto più complessi di come venivano sbrigativamente raccontati, ma anche per ricordare che non ci fu alcun esproprio e nessuna estorsione.
Tutti furono liberi di vendere o meno, benché pochi dubbi potessero esservi per chi si era improvvisamente trovato a dover valutare offerte inattese, quasi incredibili, per terreni che fino allora nessuno voleva.
Aggiungo che di vendite ce ne furono fino agli anni settanta, quando ormai il valore quei terreni era cosa nota a tutti e i prezzi erano schizzati verso l’alto.
Nei giorni scorsi la scrittrice Michela Murgia ha sostenuto che il turismo può funzionare solo se diventa il mercato delle nostre produzioni, mettendo in movimento tutto l’indotto.
Ineccepibile. Solo che quel concetto era compreso nel Piano di sviluppo integrato presentato dal Consorzio Costa Smeralda già nel 1962, cioè 54 anni fa.
“Sviluppo integrato”. Significa che non era un semplice programma di speculazione immobiliare – come ancora oggi gente poco informata asserisce – ma che attorno all’indispensabile costruzione di strutture ricettive sarebbero nate l’Alisarda per i trasporti, oggi diventata Meridiana, la Cerasarda per l’artigianato, l’Agrisarda per le materie prime alimentari e varie altre società per servire la nuova industria delle vacanze.
La Costa Smeralda, insomma, doveva essere sistema.
Proposito che è riuscito solo in parte, ma questo non basta a squalificarlo a pura e semplice colata di cemento.
Poteva essere opera di un volgare palazzinaro la creazione della Costa Smeralda, nata da un pool di architetti del rango di Jacques Couelle, Giancarlo Busiri Vici, Luigi Vietti e in ultimo Antonio Simon Mossa, una delle figure di riferimento dell’indipendentismo di oggi e di allora?
Una precisazione. Quando parliamo di Costa Smeralda, parliamo di un comprensorio limitato a 2400 ettari che va da Razza di Juncu, in Comune di Olbia, a Pitrizza, in Comune di Arzachena. Essendo invece in molti convinti che la Costa Smeralda si estenda senza limiti su tutta la costa nord occidentale, a quel modello vengono addebitate certe brutture edilizie che in Gallura sono purtroppo molto diffuse. Ce ne sono stati, di scempi, anche in Costa Smeralda, ma certamente in misura ridotta. E scempio sarebbe stato, secondo me, il piano per la Costa Smeralda 2, che l’Aga Khan propose dai primi anni settanta per raddoppiare gli insediamenti immobiliari su un tratto di costa ancora vergine e di proprietà del Consorzio.
Perché l’Aga Khan era certo un imprenditore di ampie vedute, ma pur sempre uno che perseguiva il suo utile e doveva far quadrare certi conti.
Ad un certo punto il suo interesse smise di coincidere con quello pubblico, così almeno parse ai politici del tempo, cosicché quegli investimenti rimasero sulla carta.
Perché il Comune di Arzachena, guidato dal sindaco Tino Demuro, nel 1983 si oppose formalmente a quel progetto, che venne respinto perché ritenuto insostenibile.
Questo per ricordare che gli amministratori, nel Comune della Costa Smeralda, non sono necessariamente marionette in mano al principe o all’emiro arabi di turno. Esiste la schiena dritta, anche in Gallura.

Servivano, i posti letto degli alberghi e dei residence costruiti in Costa Smeralda?

In quel periodo di studi trascorso nell’archivio comunale di Arzachena, una quindicina d’anni fa, scovai una lettera inviata al sindaco Giacomo Orecchioni da una scuola superiore svizzera.
I dirigenti scolastici chiedevano la disponibilità di un ostello per una classe di venticinque ragazzi che avevano espresso il desiderio di trascorrere un periodo di studio in Sardegna nella primavera del 1962.
Il sindaco rispose qualche settimana dopo, laconicamente: non abbiamo un solo albergo, non possiamo garantire alcuna ospitalità.
Non credo occorra aggiungere altro.
In quello stesso anno, peraltro, ad Arzachena qualche rione non aveva ancora le fogne pubbliche.
A proposito di scuole. Non va dimenticato che proprio dall’iniziativa del Consorzio Costa Smeralda nacque nel 1965 la Scuola alberghiera di Arzachena, istituto che ancora oggi forma delle professionalità da immettere in questo mercato.
Non sono soltanto camerieri o lavapiatti, come spesso si maligna, ma tutte le figure professionali richieste dal sistema: dal barman al direttore di sala, all’addetto al ricevimento. Una formazione specifica di cui, in quel momento, la Sardegna era del tutto sprovvista.

Sono state rispettate le premesse e le speranze?
Certo che no, molte sono andate deluse.
Che sia colpa dei sardi o dei “colonizzatori” è disputa sempre aperta, io preferisco pensare che non sia colpa di nessuno e che quel modello serva ancora molto, alla Sardegna.
Perché la Costa Smeralda esiste ancora, e questo è già un risultato.
Perché continua a fornire lavoro a migliaia di persone.
Sarà anche un’industria pesante, il turismo, ma non la si può paragonare alle raffinerie petrolifere di Sarroch o ai poli petrolchimici, neppure alle cave di granito che hanno devastato l’entroterra della mia Gallura.
Il paragone non regge, specie se quanto costruito è stato il risultato di una seria pianificazione. Come in questo caso.
Anche se non tutto va bene, possiamo rinunciare oggi alle mille buste paga garantite dai quattro alberghi gestiti dalla Starwood, il cui direttore generale si chiama Franco Mulas ed è un sardo di Ozieri?
Certo, le stagioni sono sempre più brevi. È un problema gravissimo, ma attiene alle politiche generali e riguarda tutto il comparto, non solo la Costa Smeralda
Possiamo rinunciare ai novanta posti di lavoro – il novanta per cento dei quali occupati da sardi – garantiti dalla Sardinia Yacht Services del manager di San Pantaleo Renato Azara?
So che i magnati dell’era post sovietica vengono guardati sempre con sospetto. E so anche che lo yacht da 154 metri di Alisher Ussmanov, che staziona fisso nel golfo del Pevero, viene visto come un’ostentazione di sfarzo stucchevole.
Lo capisco e spesso lo penso anche io.
Però questo signore uzbeko, con i servizi di vigilanza privata che richiede, paga da solo l’assunzione di quaranta guardie giurate del Consorzio Costa Smeralda, lasciando nelle casse della società quasi un milione di euro all’anno.
Quaranta delle cento guardie che lavorano durante la stagione estiva, tutte sarde.
Sapete quanto personale lavora sui tre yacht di Ussmanov? Circa un centinaio di persone e altrettante sono impiegate nelle ville che negli anni il nostro uomo ha acquistato tra Porto Cervo e Romazzino.
Certo, i sardi che fanno la guardia alle proprietà dei “colonizzatori” sono visti come servi, da altri sardi.
Ma le guardie giurate esistono ovunque e difendono proprietà private ovunque, anche nel resto della Sardegna: è il loro modo di guadagnarsi da vivere, ma chissà perché passano da servi solo in Costa Smeralda.
Esiste un società di Oliena, la “Barbagia insolita”, che in Costa Smeralda pesca da anni il suo mercato dell’escursionismo: intercetta i turisti dei grandi alberghi e li porta a conoscere l’entroterra della Sardegna. Così ha costruito un business.
Perché non sempre chi è molto ricco è anche stronzo, prepotente, ignorante e ottuso: anche a Porto Cervo si trova gente aperta e disposta a conoscere, esattamente come in tutto il mondo e indipendentemente dal conto in banca.

Si obietterà che non si può vivere di solo turismo.
E chi lo ha mai pensato?
Però intanto è una risorsa, un’opportunità offerta a migliaia di sardi che altrimenti avrebbe difficoltà a trovare un’occupazione.
Smettiamola di guardarla con le lenti deformanti del pregiudizio ideologico.
Dovremmo pensare di più alla nostra autosufficienza e smetterla di appendere i nostri destini agli umori e alle mance che ci lasciano “quelli di fuori”?
Certo. Ma se si valuta il turismo come una forma di accattonaggio, vale per tutto il settore e non solo per la Costa Smeralda.
Vogliamo rinunciare a tutto quel che di buono il turismo ci ha permesso di avere?
Se la pensate così, se pensate che il modello Costa Smeralda sia servilismo, colonizzazione, accattonaggio e speculazione edilizia, abbiate il coraggio di andarlo a spiegare alla comunità di Abbiadori, in mezzo alla Costa Smeralda, dove la gente vive di turismo senza aver mai rinunciato alla propria identità, curando i giardini delle ville in estate e l’orto di casa nel resto dell’anno.

SardegnaBlogger, 22-08-16.

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Redazione SANATZIONE.EU

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