Sardegna a due velocità. Anzi, ferma
La Sardegna rientrerà nell’orbita dei fondi strutturali UE che caratterizzavano il vecchio “Obiettivo 1”, ma le opportunità perse sono tantissime, su cui pesano gravi responsabilità politiche e culturali: tra queste, l’aver ignorato l’art. 52 dello Statuto Autonomo, che ci avrebbe consentito di partecipare all’elaborazione di importanti trattati commerciali. E nel frattempo passa il messaggio dell’Europa a due velocità, da cui forse la Regione dovrebbe smarcarsi per ricontrattare i termini della nostra adesione ad uno Stato e ad un patto europeo da cui rimaniamo costantemente tagliati fuori – La riflessione di Mario Carboni.
Sembra che la Sardegna sia rientrata nell’Obiettivo 1, denominazione del vecchio fondo strutturale UE dedicato a finanziare le aree con deficit di sviluppo, mentre il Governo italiano si appresta a firmare, il prossimo 25 marzo, un nuovo accordo europeo.
Ma in realtà dalla necessità di un Obiettivo 1 non siamo mai usciti, rimanendo nei piani bassi delle Regioni abbandonate, vampirizzate e sottosviluppate. Sia per il noto calcolo truffaldino del PIL, per cui, essendo un’isola, è facile conoscere entrate ed uscite, mentre determinate Regioni meridionali, alcune attraversate da noti movimenti del crimine organizzato, sono sempre rimaste oggetto dei maggiori fondi strutturali. Coincidenze? Basti osservare Campania, Sicilia e Puglia, per verificare le differenze nelle capacità di assorbire denaro statale ed europeo. Soprattutto in maniera perfettamente legale, tramite l’azione dei loro parlamentari, che a differenza dei nostri hanno evidentemente un’efficacia maggiore.
Non solo lo Stato ci deve i noti 10 miliardi di euro della vertenza entrate, tutt’altro che risolta (credo che un serio governo sardo avrebbe potuto calcolare cifre molto più alte), ma i tanti milioni sottratti in questi anni di espulsione dall’Obiettivo 1 dimostrerebbe che siamo in credito con lo Stato e con l’Europa. Politicamente parlando, ritengo bisogni prendere in considerazione l’uscita della nostra Autonomia dall’UE, con un possibile rientro solo ricontrattando i termini della nostra permanenza: rappresentanza, economia, cultura, ambiente, fiscalità e politiche di difesa e sicurezza. Malta docet.
Il 25 verrà solennemente siglato a Roma – in quello che sembra più un funerale che delle nozze d’oro – un Patto, una Carta, un Papiro, un Trattato che dovrebbe indicare la politica europea per i prossimi dieci anni. Due velocità dicono. Noi siamo già fuori perché abbiamo il cambio in folle, il motore gira a vuoto a causa di una dirigenza politica imbelle, che odia sé stessa e l’essere sardi. Ricordando che l’art. 52 del nostro Statuto, tanto sbeffeggiato da indipendentisti alquanto ignoranti, recita:
“La Regione è rappresentata nella elaborazione dei progetti dei trattati di commercio che il Governo intenda stipulare con Stati esteri in quanto riguardino scambi di specifico interesse della Sardegna. La Regione è sentita in materia di legislazione doganale per quanto concerne i prodotti tipici di suo interesse”.
Ebbene, mai la Sardegna è stata rappresentata in alcun trattato commerciale, e si sa che l’anima della politica è il commercio nel suo significato più esteso, soprattutto ad iniziare dal Mercato Comune Europeo, e continuando nell’involuzione dell’UE.
Ricordo il CETA, recentemente approvato a Bruxelles, che giudico generalmente positivo, ma anche in questo caso la negatività consiste nel non aver partecipato, secondo il nostro diritto, alla sua elaborazione. Chi segue la politica economica sa che sono decine i trattati commerciali, firmati ed in corso di trattativa. Anche in questi la Sardegna è assente, trasparente, inesistente, vittima di altri interessi preponderanti. Al pari di una piccola colonia ottocentesca. In particolare, non c’è stata alcuna protesta da parte del Governo sardo, né della maggioranza che lo sostiene, comprese le grucce sovraniste e rossomore che oggi strepitano, come se non avessero condiviso tutto, comprese un paio di finanziarie, nonché tutta la politica contro la lingua sarda e la zona franca.
Manca una generale consapevolezza da parte di chi fa politica, persino degli imprenditori locali, avvezzi alle elemosine assistenziali; per non parlare dei sindacati, tutti attratti da smanie protezionistiche e illiberali, con comportamenti bipolari che li portano ad esaltare sia le glorie Shardana che i falsi miti patriottardi, dimenticando i diritti della nazione sarda e la necessità di guardare avanti con un progetto di liberazione a medio e lungo termine nel solco del sardismo.
Se questa realtà venisse raccontata in un romanzo fantascientifico, ne ricaveremmo l’impressione di una classe dirigente a cui sia stato inserito un chip nella mente per tararne al ribasso il pensiero politico e culturale, neutralizzando la capacità di ragionare autonomamente e sulla scia del grande pensiero sardista di liberazione nazionale. Ciò nonostante, non si tratta di “sardizzarsi” rimasticando concetti e programmi già abbondantemente elaborati, pur non realizzati, o realizzati parzialmente, ma di rielaborarli attualizzandoli o cercando vie del tutto nuove se superati. Oggi avremmo il dovere di decolonizzarci politicamente come individui, riscoprendo cultura sardista, e se necessario, attingendo da altre fonti ed esperienze da innestare nel tronco ancora ben vivo e radicato della nostra Autonomia. Poiché anche se mortificato, come il nostro attuale Statuto, questi conserva ampie tracce dell’ispirazione iniziale, con elementi utili per salire di gradino in gradino verso la libertà, tra cui, appunto, l’art. 52 , che nessuno cita e conosce.
Nel frattempo il PSd’Az tace.
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