Da Bruxelles all’ISIS: perché la Turchia si è allontanata dall’Europa?

Di Adriano Bomboi.

Sembra passata un’eternità da quando Ankara conduceva i negoziati con l’Unione Europea in vista di una sua eventuale adesione in qualità di nuovo Paese membro. Al contrario, in appena un decennio la politica estera della Turchia ha conosciuto sensibili variazioni riguardanti una serie di mutamenti interni e soprattutto internazionali capaci di modificarne la sua struttura, al punto che la stessa Europa si trova in seria difficoltà nel soppesarne i potenziali sviluppi.

Bisogna considerare che l’analisi di questi mutamenti presenta diversi livelli di osservazione. Perché prima di arrivare alle ragioni, è opportuno innanzitutto distinguere il piano politico da quello commerciale con una premessa storica:

La collaborazione economica, seppur non inedita, nasce formalmente nel 1963, con l’Accordo di Ankara, quando l’allora Comunità Economica Europea firma con l’ex impero Ottomano un trattato di associazione a finalità commerciale basato in tre fasi, e seguito dal protocollo addizionale del 1970. Tra i punti essenziali vi era quello per la realizzazione di una Unione Doganale ed una libera circolazione dei lavoratori. Benché tale accordo non abbia mai raggiunto tutti gli intenti dichiarati, consentì comunque a posteriori alla Turchia di sviluppare l’accesso delle sue produzioni nel mercato del vecchio continente. Rapporti tutt’ora presenti, anche in ragione della comune appartenenza al WTO, e determinati essenzialmente dalla strategica presenza del Bosforo come centro internazionale dei traffici tra oriente e occidente (una rilevanza peraltro acclarata sin dai tempi dell’Impero Bizantino e della successiva contesa ottomana con la Serenissima Venezia).

Il piano politico riguarda invece un processo più articolato. Perché con la fine del secondo conflitto mondiale e l’avvio di un’epoca bipolare, la Turchia diventa l’interlocutore privilegiato dell’occidente, desideroso di tenere un avamposto strategico del vicino oriente come finestra nei confronti dell’ex Unione Sovietica. Basti pensare all’OCSE (OECE), nel 1948 battezzata anche dai turchi. Oppure alla presenza turca nel Consiglio d’Europa (1949); nonché alla partecipazione a quella che sarà la pietra angolare dei rapporti di forza nel corso della guerra fredda, la NATO (nata nel 1949, la Turchia vi aderirà nella fase del primo allargamento, quello del 1952).
Le relazioni bilaterali subiscono una battuta d’arresto tra gli anni 1980-83, a causa di un colpo di Stato militare, poi superato. Risale però al 1987 la prima formale richiesta della Turchia di adesione all’Europa unita, su spinta di Spagna e Portogallo. Stoppata in appena due anni dalla Commissione Europea, soprattutto a causa del contenzioso che vedeva coinvolta la Turchia contro la Grecia per il controllo dell’isola di Cipro. Ciò nonostante, nel 1995 si formalizzò il vecchio progetto di unione doganale, mentre nel 1997 il Consiglio d’Europa in Lussemburgo continuò a tenere distinto il profilo commerciale da quello politico in materia di adesione, negando nuovamente ad Ankara la possibilità di entrare come membro politico paritario dell’Europa. E’ solo col Consiglio riunito ad Helsinki nel 1999 che si riconosce alla Turchia il diritto di aderire alle istituzioni del vecchio continente, subordinando il suo eventuale accesso all’adozione dei cosiddetti “Copenaghen criteria”, cioè ai requisiti minimi stabiliti per tutti  gli altri candidati ammessi al processo di integrazione ed allargamento (sulla base di standard democratici ed economici comuni). Questo riconoscimento portò ad una nuova fase dei rapporti politici tra le cancellerie turche ed europee, consentendo ad Ankara di realizzare importanti riforme di modernizzazione del Paese in un arco di tempo alquanto contenuto (2001-2005). E’ proprio tra il 2004 e il 2005 tuttavia che il Consiglio d’Europa pose un nuovo freno alla corsa che pareva ormai spianata verso l’adesione, adducendo, tra le varie, problematiche ancora irrisolte. Tra queste il mancato riconoscimento turco del genocidio armeno e la difficile questione cipriota (in particolare con la presidenza austriaca dell’UE del 2006).

Ma cos’è accaduto nell’ultimo decennio?

Non poco.

Mentre il “club cristiano” chiudeva la porta del “sogno europeo” ai turchi, questi ultimi si trovarono alle prese con epocali sconvolgimenti regionalistici di cui tenere conto. Il principale fu naturalmente quello della “terza” guerra del Golfo, che portò all’occupazione dell’Iraq ed alla caduta di Saddam Hussein (2003).

Come già argomentato in vari articoli precedenti su Sa Natzione, il clima di instabilità seguito al ritiro militare statunitense dall’Iraq, aprì le porte ad una lotta di potere prevalentemente incentrata tra le potenze sciite e sunnite dell’area (Iran e suoi alleati contro sauditi, qatarioti e parte degli Emirati). Dal 2011 ad oggi, la Turchia, in condivisione con la strategia qataro-saudita, persegue una politica di contenimento, di destabilizzazione ma anche di vera e propria repressione nelle aree di confine che cingono Iraq e Siria in ragione delle componenti curde che vi sono stanziate. E’ verosimile ritenere che la condivisione di questa linea di politica estera sia dovuta ad alcuni fattori essenziali:

Il primo, di prevenzione, ha visto Ankara preoccuparsi per la nascita di uno Stato curdo a ridosso dei suoi confini, la cui eventuale presenza avrebbe innescato nuove tensioni interne alle minoranze curde assorbite nel proprio territorio nazionale.
Il secondo, di circonvenzione, ha visto Ankara allinearsi alla linea di destabilizzazione portata avanti a carico di Iraq e Siria dalle potenze sunnite contro l’Iran, nonché contro il suo primo alleato mediorientale, Damasco appunto, oggi indebolito ma tenuto in sella dall’intervento russo.

Il contesto spiegherebbe pertanto il doppiopesismo turco nella tenuta dei rapporti con l’occidente e allo stesso tempo del rafforzamento dei rapporti con alcune monarchie del Golfo interessate a contrastare l’Iran dopo un evento fondamentale quale gli accordi sul nucleare siglati grazie alla Casa Bianca.
Dobbiamo infatti considerare che storicamente, ogni qual volta un “impero” abbandona una diretta partecipazione militare da un teatro regionale, altre forze locali non mancano di introdursi in quel vuoto di potere per occuparlo. Ed è esattamente ciò che è sempre accaduto, dall’epoca della fine di Alessandro Magno sino al presente (con la variazione di politica estera USA, sino a poco tempo fa storicamente alleata con le monarchie del Golfo, ed oggi aperta anche all’Iran sciita).

Difficile pertanto immaginare pacificazioni a breve in un così articolato scenario. Pensiamo alla sola posizione francese: se fino al decennio scorso si opponeva alla Turchia nell’UE poiché vista come una concorrente in grado di usare le istituzioni europee per sottrargli influenza nei rapporti con precisi Paesi arabi (vedere Libano), nell’ultimo triennio ha allentato l’opposizione alla Turchia aprendo nuovi spiragli di partenariato con l’Europa (capitoli 17 e 22 dei negoziati per l’adesione). Inoltre oggi sia Ankara che Parigi continuano a vedere il dittatore Assad come un ostacolo da rimuovere (magari anche grazie al supporto dell’ISIS). Ostacolo però difeso dal protagonismo di Putin e del suo autoritario governo in funzione di “paciere” dello scacchiere siriano; mentre gli USA, come dimostrano anche gli ultimi studi della RAND Corporation (think tank finanziato dal Pentagono), perseguono una politica di equilibrio con tutti gli attori coinvolti nell’area, pur riconoscendo un formale impegno di contrasto all’ISIS. La tenuta della tregua pattuita tra Kerry e Lavrov ci darà una misura dei prossimi effetti sui negoziati di pace e sulle scelte che la Turchia dovrà affrontare.
Nel frattempo Ankara scarica sulla Grecia e sull’Europa il problema dei migranti ancora in fuga dal conflitto.

Inutile ricordare che le uniche vere vittime di un simile contesto non vivono nelle cancellerie turche od europee, ma nelle case di popolazioni soggette ad una guerra fomentata da contrapposti governi autoritari.
Quanto accaduto dimostra inoltre che la politica estera UE rimane caratterizzata più da azioni simboliche che pratiche (si pensi, su questa vicenda, all’inconsistenza del ruolo tenuto dall’Alto rappresentante dell’Unione su affari esteri e sicurezza), dove in realtà la legittima politica estera dei singoli Stati continuerà a sovrapporsi alla velleità di voler uniformare Paesi dotati di esigenze scarsamente convergenti.

Scenari possibili? Salvo imprevedibili avvicendamenti di potere, nel medio termine si potrebbe proporre alla Turchia un’effettiva adesione europea per disinnescare il suo nuovo protagonismo mediorientale. Oppure si potrebbe sviluppare una nuova forma di partenariato multilaterale.

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