Lo Stato e la giustizia: trent’anni fa la battaglia di Osposidda

Di Adriano Bomboi.

Esistono vicende umane in cui i confini tra i cosiddetti “buoni” ed i “cattivi” divengono tanto labili quanto impercettibili. L’inverno del 1985, che segna un punto di svolta nella stagione dei sequestri, è passato alla storia come uno di questi.

Nell’agro di Osposidda, fra i territori di Oliena e di Orgosolo, si consumò l’atto finale del sequestro di Tonino Caggiari, imprenditore barbaricino. In quel freddo pomeriggio di gennaio si creò un vero e proprio campo di battaglia, con i protagonisti divisi in due coalizioni: da una parte i sequestratori, e dall’altra agenti e cittadini olianesi. Il sequestrato venne ridotto al rango di un personaggio secondario.

Cosa successe esattamente?
Indubbiamente un fattore decisivo per il fallimento del sequestro.
Caggiari, largamente stimato dai suoi compaesani, attirò numerosi cittadini in suo soccorso, che fin dai primi istanti del rapimento si lanciarono all’inseguimento dei banditi, nel tentativo di ottenere la liberazione dell’ostaggio. Questo fatto demolì automaticamente due capisaldi che avevano sempre contrassegnato il successo di numerosi sequestri: la conoscenza del territorio (perché gli inseguitori olianesi, come i rapitori, conoscevano ogni possibile anfratto della zona); e soprattutto annientò quel sottile velo di accondiscendenza che aveva sempre accompagnato questi fatti criminosi (i banditi non godevano di alcun consenso popolare per l’azione compiuta, e ciò precluse loro ogni eventuale rete di protezione sociale su cui in passato avrebbero potuto contare per la riuscita dell’impresa). Tale aspetto archiviò quella malsana visione romantica del bandito-ribelle, che eroicamente sapeva sfidare l’ordine costituito per riparare ad un presunto torto subito.

Eppure il rovesciamento di questo paradigma non durò a lungo.

Trovatisi braccati da cittadini e forze dell’ordine, i sequestratori reagirono in modo diverso rispetto a tanti altri sequestri del recente passato. Fallita qualsiasi ipotesi di ottenerne un beneficio, non di rado l’ostaggio veniva giustiziato, e se non vi era la possibilità di nasconderne il cadavere lo si lasciava direttamente sul posto. A Osposidda i sequestratori abbandonarono vivo l’ostaggio, che venne rapidamente accolto tra le braccia dei suoi compaesani. In altri termini, i rapitori scelsero di non usare Caggiari come scudo umano. L’atto avrebbe così chiuso una delle più brutte pagine di storia della Sardegna. Sfortunatamente, chiunque riteneva lo Stato come unico dispensatore della giustizia in terra dovette ricredersi.

Carabinieri e Polizia ingaggiarono un conflitto a fuoco con i rapitori, che in misura altrettanto violenta erano muniti di mitragliatori e bombe a mano. L’esito di questo confronto, durato ore, fu devastante, con cinque morti e cinque feriti.

Si trattò di un inutile spargimento di sangue? Secondo lo Stato si determinò un’azione drammatica ma necessaria. Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca Ministro dell’Interno, commentando televisivamente la faccenda, disse che i sequestratori avevano “voluto” quel corso degli eventi. Una presunta volontà omicida e suicida che avrebbe trascinato alla morte quattro di loro ed uno degli agenti impegnati nella sparatoria. Ma col senno di poi appare quasi una debole giustificazione per i veleni che accompagnarono le vicende con cui si chiuse la battaglia.
Per essere precisi, i veleni riguardarono un dubbio e una macchia: il primo è quello che accompagnò l’uccisione dell’ultimo bandito, Niccolò Floris. Stando alla versione ufficiale, ritrovatosi solo, Floris non avrebbe accettato di arrendersi e continuò a sparare contro gli agenti che infine lo crivellarono di colpi. E’ plausibile che chi poco prima aveva liberato un ostaggio decise di andare incontro alla morte in tal modo?
La seconda, una macchia sull’operato delle forze dell’ordine, riguardò la parata dei cadaveri dei banditi, che vennero trasportati in un macabro corteo a sirene spiegate, quasi a festeggiare l’esito di una barbarica caccia al cinghiale.

Ai posteri ogni ardua sentenza.

- Anche su Sardegna Soprattutto.

Nota a margine (14-04-15):

Opportuno rileggere oggi, di straordinaria attualità, la controversa opera di Giulio Bechi intitolata “Caccia grossa”.
Difficile affermare se ad Osposidda l’accompagnamento pubblico dei cadaveri, a differenza dell’agente caduto, abbia rappresentato l’ostentazione della vittoria od un monito da consegnare alle popolazioni verso potenziali nuovi sequestratori (che comunque non mancarono, si pensi al celebre sequestro di Farouk Kassam del 1992).
Dalla vicenda emerge indubbiamente uno Stato ancora influenzato dalle logiche di epoca sabauda, dove fiscalismo, dirigismo e repressione erano gli strumenti per combattere il banditismo, ma che alla lunga si dimostrarono proprio gli elementi che ne perpetuavano il malessere sociale.

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