Intervista sull’indipendentismo

Cari Lettori, alcune settimane fa mi trovavo alla presentazione del libro di un amico e inaspettatamente l’evento ci ha riservato anche l’occasione per parlare col pubblico di indipendentismo e di U.R.N. Sardinnya. Per il 90° aggiornamento mensile di Sa Natzione, pubblichiamo il testo della registrazione effettuata nel corso della serata – Adriano Bomboi.

Di Felice Madau.

Seguo il sito Sa Natzione da anni e ho trovato tematiche molto interessanti sulla situazione della Sardegna. Ma come è nato l’indipendentismo del vostro gruppo e l’idea di fare opinionismo?

Devo ringraziare i lettori perché se siamo arrivati fino al 2013 con le nostre pubblicazioni si deve a tutti coloro che ci seguono da anni e a quelli che via via si sono avvicinati strada facendo. Il gruppo si chiama U.R.N. Sardinnya, significa “Unione per la Responsabilità Natzionale”, e nasce nel 2005 dalla volontà di un insieme di amici con lo scopo di mettere in discussione l’indipendentismo di allora, che come oggi era diviso ma ancor più incapace di fornire una seria proposta politica ai Sardi. Abbiamo ritenuto utile far presente che la la situazione dell’indipendentismo era critica, e che andava affrontata introducendo per la prima volta e da un mezzo di comunicazione potente come internet una critica pubblica. I risultati non sono mancati. In un certo senso abbiamo attualizzato e rimodernato il lavoro delle vecchie pubblicazioni transardiste diffuse negli anni settanta, come quelle firmate dal compianto Gianfranco Pintore, che comunque agivano in un contesto sociale e politico molto diverso dal presente.

Perché l’indipendentismo? E come può aiutare oggi la Sardegna?

L’indipendentismo è la voce riformista dell’isola. Penso che quasi tutti in questa sala abbiano toccato con mano i problemi del fisco, paghiamo tasse altissime per servizi inefficienti. O pensiamo alla disoccupazione, al problema dei trasporti, e tanto altro. I partiti italiani che hanno governato sinora in Sardegna non hanno risolto questi problemi, e spesso ne sono stati responsabili. Un po per la mediocrità della nostra classe politica, un po per le scarse competenze della Regione Autonoma rispetto allo Stato. Se osserviamo i programmi politici dei vari movimenti indipendentisti noteremo facilmente che hanno studiato diverse soluzioni ai nostri problemi, come la creazione di una agenzia Sarda delle entrate per far si che i soldi delle nostre tasse non vadano direttamente a Roma ma siano trattenuti dalla Regione. Questa e tante altre cose possono essere realizzate subito, mentre per altre è necessario riformare le nostre istituzioni. Ma soprattutto chiediamoci: vogliamo rimettere l’isola in mano a personaggi indagati per peculato? Se vogliamo il cambiamento, fin dalle prossime elezioni regionali dobbiamo dare fiducia all’indipendentismo.

Ho notato che da Sa Natzione non sono arrivate solo critiche ma anche proposte, come quella di fare un Antitrust regionale. A cosa serve?

Aprire uno spazio e riempirlo solamente di critiche sarebbe stata un’operazione troppo facile e poco utile. Una legislazione Antitrust consentirebbe al nostro territorio di sanzionare i cartelli che oggi stritolano l’economia della Sardegna, pensiamo a ciò che è successo con Tirrenia: Roma ci ha messo sotto embargo! O guardiamo ai costi del settore energetico, come nel gas, o quello elettrico in generale. La nostra soluzione, che non è l’unica, riguarda una riforma che deve passare per una revisione complessiva dell’Autonomia regionale, e quindi anche della Costituzione Italiana. Spesso è la mano pubblica e non quella privata ad aver innescato i problemi.
Nessuno si illude che a breve una forza politica coesa la porti avanti, ma come indipendentisti è nostro dovere provarci. In secondo luogo avevamo bisogno di mostrare alla componente più movimentista dell’indipendentismo che la sovranità è una cosa seria e che non si otterrà per slogan ma solo governando e riformando questa benedetta isola.

Fra i vostri maggiori contributi all’indipendentismo moderno ho notato una linea europeista, e addirittura alcuni progetti di partiti politici con una comunicazione politica moderata.

L’europeismo non l’ha certo inventato U.R.N. Sardinnya, faceva già parte dell’ozioso sardismo del passato, ma dal 2005 abbiamo combattuto l’euroscetticismo di IRS e SNI perché consegnava l’immagine di un indipendentismo isolazionista, e questo rinsaldava tutti gli stereotipi e le paure dell’opinione pubblica sui nostri movimenti. La cosa ci è costata una bella dose di antipatia ma oggi il principio è entrato a far parte di quasi tutte le sigle. Magari se non avessero perso tempo a farsi la guerra sulle etichette e sulle bandierine avremmo avuto meno scissioni e più tempo per riflettere sulla ristrutturazione dell’indipendentismo Sardo.

Il logo del Partito dei Sardi di Paolo Maninchedda ha le stelle della bandiera europea che circondano la Sardegna, un vostro suggerimento?

No, ma evidentemente è stato assorbito il nostro messaggio. Nel logo della nostra idea di Partito Nazionale Sardo c’è il blu dell’Europa unita. Anche il ProgReS di Michela Murgia arriva dopo il nostro prototipo “Progressisti” del 2005/2006, con una impostazione laburista e non etnocentrica, mentre attorno al 2007 abbiamo rispolverato l’idea di un PNS, di matrice nazionalista ma liberale, come forza coesa e riformista necessaria a far capire ai movimenti attuali che le divisioni non costituiscono il pluralismo dell’offerta politica se quasi tutte le sigle hanno programmi identici. Questo ha motivato anche la nostra battaglia contro il leaderismo e a favore delle primarie come strumento di selezione dei nostri candidati politici. Con la nuova linea abbiamo recuperato anche la necessità di difendere la lingua Sarda, senza la quale non ci sarebbe un futuro per la nostra autonomia e tanto meno per una futura Repubblica.
L’introduzione di una massiccia comunicazione liberale è stata probabilmente una piccola rivoluzione culturale in un indipendentismo che tutt’ora rimane di orientamento socialdemocratico e persino comunista, ma che nel corso degli anni ha assorbito sempre più i valori della libertà e della lotta allo statalismo. Nessuno prima d’ora aveva importato la concettualità della scuola austriaca in un ambiente così conservatore. Ciò che dobbiamo continuare a combattere nell’ideologia dei movimenti Sardi è la tendenza a sottovalutare il ruolo dei privati, e dei nostri imprenditori, rispetto al settore pubblico, che viene visto come l’unico in grado di risolvere i problemi della Sardegna. Il disastro della “flotta Sarda” di Cappellacci, spesata con le tasche dei contribuenti e sostenuta anche da molti indipendentisti, è il sintomo di questo ritardo ideologico. In questa loro visione della sinistra si somma un pregiudizio contro diverse fasce di Sardi, pensiamo ai militari od agli agenti di polizia, e talvolta persino contro i cattolici Sardi ed il ruolo della Chiesa. Bisogna dire però che ormai sono componenti minoritarie e non rappresentative dei nostri movimenti.

Contributi fondamentali, ma dunque siete di destra?

Personalmente sono un liberale, tecnicamente sarei un miniarchista, ma non voglio annoiare i presenti. Altri amici del gruppo sono di destra, altri di sinistra. Ma qui non si tratta di essere di destra o sinistra, perché sono categorie stantie, si tratta di far capire che senza il rispetto del pluralismo di un Popolo non c’è futuro. Certo è che al di là del sardismo siamo stati il primo organismo indipendentista ad avere dei militari, a pubblicare le dichiarazioni di un Papa, o in politica estera ad ospitare anche le ragioni di Israele e dell’occidente. Pur dando spazio alle minoranze, abbiamo distrutto ogni luogo comune su un indipendentismo che fino al recente passato aveva una forte componente folk-ribellista e terzomondista. Perché combattere le discriminazioni non significa crearne di nuove o isolarsi dal nostro contesto.

Voi avete “riabilitato” l’epoca delle chiudende e contestato la vecchia teoria comunitarista di intellettuali come Placido Cherchi, una provocazione?

Tutt’altro, è un dato storico che nell’ottocento a seguito delle chiudende – e quindi grazie all’introduzione della proprietà privata – i terreni Sardi conobbero una stagione di relativa crescita nel campo della produzione e del commercio destinato all’export, poi bloccato dal protezionismo statale. Ciò danneggiò notevolmente i nostri primi “imprenditori” dell’agroalimentare, subordinandoli ai produttori continentali. Sia chiaro, l’abbandono degli usi civici spianò la strada a spietate iniquità a carico della popolazione e del nostro patrimonio ambientale, in particolare quello boschivo, ma in primis ciò fu possibile grazie alla disinvolta politica predatoria dello Stato. Va poi archiviato il mito di una età aurea caratterizzata da un supposto comunismo ambientale espresso dal mondo pastorale, in realtà l’isola era contrassegnata da forti disparità sociali e da una condizione di pesante arretratezza economica e sociale.

Se domani fossimo indipendenti moriremmo di fame?

Mi aspettavo una domanda del genere. Potrei fare l’esempio di Malta, nel Mediterraneo abbiamo un isola più piccola della nostra perfettamente indipendente, ma che ha avuto un contesto storico profondamente diverso. Dobbiamo considerare che il nostro indipendentismo, pur essendo ancora diviso, ha acquisito la consapevolezza del proprio ruolo che deriva dalla responsabilità di rappresentare un Popolo. Non siamo rivoluzionari ma riformisti, quindi non ci sarà mai un domani in cui si arriverà di punto in bianco all’indipendenza. Magari potrà esserci il giorno della proclamazione di una Repubblica indipendente, ma la sufficienza economica la conquisteremo prima gradualmente, attraverso le riforme di cui parlavo. E solo quando avremo maturato una vera autonomia istituzionale rispetto all’Italia valuteremo un democratico referendum per l’indipendenza. E’ certo che quando questo avverrà non ci saranno persone ammalate lasciate a morire sui marciapiedi o anziani senza pensione. Oggi sappiamo che lo Stato Italiano continua ad essere in debito con la regione a causa della vertenza entrate, però abbiamo anche indipendentisti che devono superare la moda di voler dimostrare che lo Stato non versa più di quanto noi riceviamo: storicamente l’indipendenza irlandese ci ha insegnato che conteggiare i dati di una realtà attraversata da una politica assistenziale non ha molto senso, meglio rimboccarsi le maniche per fare delle riforme e quindi per sviluppare il nostro potenziale economico. Se il buon padre di famiglia non arriva a fine mese non passa sicuramente il tempo a ricontare gli stessi soldi sperando che diventino la somma giusta, può darsi che non spenda bene quello che ha, o che siano insufficienti al suo fabbisogno.

E l’Europa come può aiutarci in mezzo a questa crisi? Ha ancora senso essere europeisti?

Questa Europa non può aiutarci, il nostro europeismo prospetta con convinzione una comunità di popoli indipendenti. Guardiamo ad esempio alla teoria dell’elvetizzazione di un economista come Hermann Hoppe, patrie piccole unite solamente dalla reciproca volontà del libero commercio. E non scordiamoci che fra le venti maggiori economie del mondo vi sono Stati piccoli. A dispetto di ciò che si potrebbe pensare oggi, nel futuro non ci sarà spazio per Stati di vaste dimensioni dotati di imponenti debiti pubblici necessari a coprire farraginosi sistemi burocratici, assistenziali, militari e naturalmente clientelari. Però fin dal presente non possiamo proseguire con un insieme di istituzioni capaci di negare i diritti delle minoranze ed imporre i propri diktat economici. Pensiamo alle quote latte, siamo sottoposti ad un totalitarismo burocratico che non aveva eguali neppure nell’Unione Sovietica. La PAC sull’agricoltura è un attentato al nostro sviluppo, l’assistenzialismo ha drogato al ribasso il nostro potenziale produttivo. Da una parte abbiamo l’agro-allevamento Sardo che si lamenta di non ricevere abbastanza sussidi, anche perché la Sardegna non ha una vera rappresentanza in Europa. Dall’altra abbiamo lasciato inondare il nostro mercato interno da una serie di prodotti provenienti da Paesi UE i cui produttori beneficiano più dei nostri nelle stesse produzioni. O pensiamo al dumping causato ai Paesi del terzo mondo. Per chi non lo sapesse, il dumping consiste nel vendere sottocosto un prodotto in un terzo mercato. Il problema non è il dumping in se e la concorrenza, ma il fatto che in questo contesto chi le compie è beneficiario di denaro pubblico. E questo è economicamente oltre che eticamente insostenibile. Essere sovrani ci consentirebbe di alzare la voce contro queste ingiustizie nelle sedi opportune.

La Sardegna potrebbe campare solo di turismo e di agricoltura?

Leggo la situazione in modo meno semplicistico, e credo che dovremmo essere realisti. Non credo ad un territorio che basa il suo sviluppo sulla monocultura economica, o comunque restringendo la sua sfera di attività a due soli settori. Credo piuttosto ad un modello economico integrato e articolato, che include anche un forte settore manifatturiero, e non solo. Ma scordiamoci la grande industria, in particolare quella metallurgica, dannosa e inquinante tanto quanto le servitù militari. Pensiamo a bonifiche e riconversioni, a cui naturalmente bisogna abbinare una riduzione fiscale in tutti i settori. La tassazione italiana non è accettabile, per di più alla luce degli scarsi investimenti infrastrutturali e del peso burocratico a cui siamo sottoposti.

Va bene, ma chi bisognerebbe votare alle prossime regionali?

Attualmente i partiti Sardi non mancano, c’è il ProgReS con “Sardegna Possibile” di Michela Murgia, il Partito dei Sardi di Paolo Maninchedda e Franciscu Sedda, il Fronte Unidu Indipendentista, Fortza Paris, PSD’AZ, e vediamo anche quali candidature esprimeranno IRS, Sardigna Natzione ed altri.

Soddisfatti? U.R.N. Sardinnya non si candida?

Se parliamo di soluzione ideale, l’ideale in cabina elettorale sarebbe stato quello di trovare un forte PNS e al massimo un altro partito Sardo. E senza ombra di dubbio avremmo indebolito i partiti italiani con la loro crisi di credibilità. Oggi il rischio è di non riuscirci, per questo c’è bisogno del voto di tutti. La realtà purtroppo non segue mai le soluzioni migliori. Per quanto riguarda U Erre Enne posso dire che non è stata pensata come un movimento politico. Per una partecipazione politica attiva è necessaria una piattaforma meno frammentaria, e farsi conoscere in pubblico. Al momento non c’è questa necessità, ma la stiamo valutando da tempo. Avvieremo comunque delle iniziative e abbiamo anche un libro in fase di preparazione.

Su internet ci sono tanti blog che parlano di indipendentismo, ma nessuno ha una linea politica come Sa Natzione. Che differenze ci sono?

E’ un problema che riscontro spesso in tanti blog nati dopo il nostro progetto, perché era pensato anche per stimolare il dibattito da parte di chi non aveva mai avuto il coraggio di dire la sua. In democrazia sarebbe il compito di una cittadinanza consapevole. Purtroppo tanti iniziano ad esporre le proprie idee ma non le portano avanti, qualche volta infilandosi anche dentro un movimento senza il minimo spirito critico. Manca la costanza, a cui si somma l’assenza di una chiara visione globale del nazionalismo Sardo. Senza questi due requisiti non è possibile dare alcun contributo di lungo termine al dibattito. Nel web invece il pubblico è sempre più numeroso, e questo testimonia il crescente interesse dei Sardi sul futuro della propria terra.

Una curiosità, cosa significa il simbolo di San Giorgio?

Eccetto i quattro Mori, l’Inghilterra ha la stessa bandiera della Sardegna, una croce rossa su sfondo bianco, è la croce di San Giorgio. Idealmente per noi la raffigurazione del mito di San Giorgio nell’atto di uccidere il drago rappresenta la lotta democratica e libertaria dei Sardi contro lo Stato Italiano. E sarà una dura battaglia.

Auguri!

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos

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    1 Commento

    • Auguri! Ottimo lavoro!

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