I limiti giuridici, politici ed etici sul caso dei due marò

L’Italia della partitocrazia, l’Italia dell’assistenzialismo, l’Italia delle tasse è la stessa Italia dove senza il federalismo non esiste il concetto del bene pubblico, dove lo status quo serve a tenere in vita un sistema fallimentare e di corruttele, dove lo Stato-nazione, per sua stessa natura, è il nemico delle minoranze e della libera iniziativa, dove si trova un Governo ad un mese dalle elezioni e dove l’amministrazione della politica estera è ridotta alla berlina. Il caso dei due marò detenuti in India è solo uno di questi esempi. Ma che cosa è successo esattamente e qual è il ruolo dei due militari?

Durante il lungo periodo di crisi della politica italiana, la vicenda dei due fucilieri di Marina arrestati in India ha infatti evidenziato il debole profilo dello Stato italiano anche all’estero.
I due marò fanno parte di un Nucleo di Protezione Militare designato dalla Difesa con il compito di proteggere beni ed equipaggi dei mercantili italiani, nella fattispecie l’Enrica Lexie, dall’assalto di eventuali pirati in acque considerate pericolose. Il Nucleo di Protezione Militare venne istituito dalla legge 130 del 2011, in riferimento alla risoluzione ONU sulla sicurezza dei commerci marittimi ed alle operazioni antipirateria varate dall’Unione Europea. Tuttavia, si tratta di un organismo non riconosciuto da altri governi, né dal governo indiano, secondo cui non esiste un accordo specifico sulla materia.
L’arresto dei due marò può essere considerato a pieno titolo una infrazione al diritto internazionale, in quanto, nonostante il mercantile navigasse su acque internazionali, è riconosciuto sotto il profilo giuridico come territorio italiano.
Stando alle principali ricostruzioni della stampa, la Enrica Lexie al momento del conflitto a fuoco con i presunti pirati si trovava nella zona contigua tra le 12 e le 24 miglia dalle acque territoriali. In questa zona il governo indiano esercita la sua giurisdizione ai sensi di una convenzione dell’Organizzazione marittima internazionale, ed è perciò legittimato a compiere controlli per prevenire la violazione delle proprie leggi, ma non può esercitare la sua giurisdizione sulle navi che battono la bandiera di uno Stato straniero.
A tutela dei due marò vi è la Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay’s Treaty), non sottoscritta da tutti i membri dell’ONU e nata in risposta a casi di speronamento e/o di altri incidenti marittimi. Agli articoli 94-97 si prevede il diritto dello Stato di bandiera di esercitare la propria giurisdizione per gli incidenti in acque internazionali.
Rientrando in porto la Lexie ha comunque di fatto offerto i marò alla giustizia indiana, dando così all’India la possibilità di rivendicare la titolarità della giurisdizione ed in base alle circostanze che vedono le vittime dotate di cittadinanza indiana e su una imbarcazione indiana. Il primo errore dello Stato Italiano è stato dunque quello di aver permesso la consegna dei due marò, rinunciando de facto ad esercitare il suo diritto processuale, ed avendo accettato (tramite la propria ambasciata) da oltre un anno, la difesa degli imputati di fronte alla magistratura indiana. Questo è uno dei motivi per i quali l’UE e l’ONU non hanno offerto immediato sostegno diplomatico all’Italia, in quanto la consegna dei marò ha fattualmente riconosciuto la giurisdizione indiana sul caso, avendo l’Italia rinunciato a trattenere sulla Enrica Lexie i propri militari, e rendendo così futili e contraddittorie le tardive richieste di Roma, comunque legittime, di un arbitrato internazionale sul caso.

Dopo il disastro giuridico, si è aggiunto quello politico, condito da una buona dose di dilettantismo e becero nazionalismo italiano, a cui si sono sommati alcuni interrogativi etici.
A seguito del rientro di Latorre e Girone, seppur essendosi impegnato per allungare il periodo di permesso della loro permanenza in Italia, il governo italiano ha assunto una linea ondivaga e contraddittoria. In primo luogo il Quirinale ha accolto il primo rientro dei militari italiani in pompa magna, unico caso in occidente dove un Capo di Stato riceve con tutti gli onori degli imputati senza aver prima accertato se questi siano colpevoli dei reati a loro ascritti e/o se abbiano semplicemente rispettato le proprie regole di ingaggio.
Ciò nonostante, si è scelto di proseguire nella linea di far processare i militari in un tribunale indiano, e non, a limite, su pressione, da un organismo Europeo come la Corte Internazionale di Giustizia.
Questo ha esaltato un problema etico che risiede alla base di ogni Stato interessato alla difesa dei propri militari: la tutela simbolica e giuridica deve esistere sempre e comunque anche se questi fossero colpevoli? Ci permettiamo di dubitarne. Altri Stati, fra cui gli USA, in presenza di militari macchiatisi di omicidi all’estero, hanno scelto la tutela giuridica ma senza onorare i propri imputati. E questo differente approccio al tema fra Washington e Roma denota il pressapochismo morale dell’Italia, i cui vertici e i principali partiti politici si sono esibiti in dichiarazioni di sostegno ai militari, includendovi anche l’assoluta presunzione di innocenza – legittima in qualsiasi democrazia – ma che richiede i dovuti tempi ed i corretti passi giudiziari per poter essere accertata.
Consideriamo inoltre che ai numerosi militari italiani, inclusi parecchi Sardi, ammalati per cause di servizio (pensiamo all’inquinamento da uranio impoverito) ed innocenti sotto ogni profilo penale, non sono mai stati tributati simili onori. E questo dovrebbe farci riflettere sulla disparità di trattamento subito fra i nostri militari da parte delle alte sfere dello Stato ed una Difesa che in Sardegna continua a tenere oltre il 70% del demanio militare di tutta la Repubblica. Un problema che dovrebbe far vergognare tutti quei politici Sardi che hanno acriticamente tifato per i due marò senza mai essersi seriamente occupati dei militari e dei civili Sardi.
Ma non è tutto: con il secondo rientro di Latorre e Girone, in occasione delle elezioni politiche, si è manifestato un capolavoro di dilettantismo diplomatico e giuridico.
L’ambasciata italiana, dietro giuramento alla Corte Suprema indiana, aveva infatti garantito il rientro dei marò, mentre l’esecutivo italiano ha poi deciso di non consentire il loro ritorno in India. Successivamente l’India ha minacciato una escalation legale a carico dell’ambasciata italiana e Roma ha cambiato linea, ritenendo opportuno rispedire i due militari nelle mani di New Delhi, il capolavoro del ridicolo.
E’ stata una decisione prematura, rafforzata dalle garanzie che il ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid avrebbe offerto alla Farnesina riguardo alla rinuncia di sanzionare i due marò con la pena di morte, prevista in India nei casi di omicidio.
Nella bufera per la gestione del caso, il 26 marzo scorso, il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi ha rassegnato le sue dimissioni, a coronamento di un fiasco diplomatico e giudiziario che peserà per anni nei corridoi di ogni cancelleria estera.

A prescindere dalle relazioni commerciali tra i due Stati, che potrebbero aver interagito nella vicenda, viste le 400 aziende italiane che operano in India, ma anche ricordando il contenzioso ancora aperto sul sequestro di dodici elicotteri AgustaWestland forniti dall’Italia e congelati dall’India dopo l’esplosione dello scandalo Finmeccanica, Roma ha mostrato tutta la sua fragilità, il suo populismo e l’assenza di credibilità. E’ questo lo Stato che vogliamo?

Di Roberto Melis.

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