Il mese autonomista

Il mese autonomista: dal ritorno del PSD’AZ a Villagrande Strisaili (ospiti Vittorio Sgarbi e Paolo Maninchedda) sino al referendum promosso dai Riformatori Sardi per dare dignità giuridica all’insularità; passando per la proposta di revisione costituzionale di Mauro Pili per permettere, in futuro, una consultazione sull’indipendenza. Ma soprattutto, osservando il rilancio della “questione settentrionale” da parte dei lombardo-veneti.

Commentiamo gli aspetti positivi e negativi di queste iniziative – Di Adriano Bomboi.

Sarà il vento catalano? In appena venti giorni c’è stata una ripresa delle tematiche autonomiste che, a dir la verità, in tanti davamo già per spacciate. Da settimane infatti la grande stampa italiana si è quasi totalmente iscritta al “partito della spesa pubblica”. Uno spazio politico che ha padrini a Roma e figliocci tra le maggiori testate giornalistiche, e il cui obiettivo è quello di impedire ai cittadini di pensare con la propria testa.

Ma in merito a quale argomento?

Al fatto che Barcellona, ma soprattutto Venezia e Milano, sono capoluoghi leader di aree che hanno un PIL più alto di tante altre Regioni dello Stato a cui appartengono.

Che cosa significa?

Che oggi lo Stato Italiano esiste solamente perché Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna producono la ricchezza che – tramite il fisco – manda avanti buona parte del Paese. Ragion per cui i cittadini del lombardo-veneto hanno tenuto un referendum per aumentare la loro autonomia, con la finalità politica di trattare con lo Stato la possibilità di non devolvere più una cospicua parte del loro residuo fiscale a vantaggio di Regioni improduttive. Aree in cui questi soldi si trasformano in sperperi, corruzione, clientelismo e assistenzialismo: fattori che rappresentano le cause del perenne divario tra il nord e il sud dell’Italia. Fattori che osservatori come Gramsci attribuivano erroneamente al capitalismo italiano, ma che in realtà oggi sappiamo essere solo un prodotto dell’interventismo politico a danno del libero mercato, sia per lo sviluppo del nord che per la crescita del sud (e delle isole, Sardegna compresa).

Non a caso, l’architrave che sorregge l’Italia è basato sul centralismo, il quale si occupa di redistribuire risorse drenandole dai soggetti più virtuosi a vantaggio dei meno virtuosi, danneggiando però entrambi (salvo la pletora politico-burocratica che gestisce tale processo).

Non deve stupirci quindi la presenza di una stampa e di una politica parassitaria che accusa di “egoismo e scarsa solidarietà” aree che avrebbero tutto il diritto di decidere dei propri soldi senza delegare questa scelta ad una carta costituzionale scritta da signori morti da tempo.

Ma non facciamoci illusioni, i referendum settentrionali potrebbero non sortire alcun effetto. I nostri amici del nord non si aspettano nulla di buono dalla Lega, ormai trasformatasi in un partito nazionalista italiano, e sperano che in qualche modo la volontà popolare possa tradurre in termini politici un patrimonio culturale che invece la Lega di Bossi (prima) e di Salvini (oggi) ha sempre contribuito a distruggere.

In Sardegna, ovviamente, proprio i partiti autonomisti e indipendentisti che avrebbero dovuto seguire con interesse queste vicende non si sono accorti di nulla. Tuttavia, al pari dei leghisti, hanno almeno contribuito a diffondere tematiche che la stampa sta nervosamente cercando di contenere.
I temi dell’autogoverno, seppur declinati in termini che ignorano i soldini piovuti a Cagliari da Milano, hanno alimentato nuovi dibattiti e nuovi convegni utili a informare l’opinione pubblica della loro importanza.

E’ in questo quadro che dobbiamo guardare con favore alla vitalità del Partito Sardo d’Azione, che in appena tre giorni a Villagrande Strisaili è riuscito a convogliare un nutrito pubblico che ha messo in relazione vari punti di vista. Tra questi, il colorito ma ottimo intervento di Vittorio Sgarbi, il quale, da ospite, ha richiamato la centralità della lingua e della cultura come elementi su cui poggiare le basi del riscatto sociale.
O quello di Paolo Maninchedda (PDS), l’unico ad aver compreso che l’indipendenza è possibile solo se la Sardegna diventerà capace di accrescere la propria ricchezza. Sfortunatamente non ha letto Milton Friedman (o se lo ha letto non lo ha capito), secondo cui la ricchezza diminuisce quando si eccede nell’uso della spesa pubblica che lo stesso Maninchedda sembra non disdegnare. Questa “ricchezza” infatti continua a diminuire anche se Maninchedda ritiene che la spesa pubblica serva ad accompagnare imprese e cittadini in un indefinito periodo di transizione che dovrebbe condurre allo sviluppo (di cosa non si sa, visto che nessuno interviene sulla cultura, sul fisco e sulla burocrazia).

Ma non illudiamoci, anche all’evento di Villagrande non sono mancate polemiche interne al sardismo che da tempo lacerano il partito tra silenzi e attendismo. Mentre diversi avventori esterni, soprattutto i leader regionali dei partiti italiani, hanno utilizzato la vetrina sardista per esibire la solita sterile retorica finalizzata a conservare la situazione esistente.

Nel frattempo, i Riformatori Sardi sono riusciti a riempire altre sale con l’ultima battaglia del momento: quella per realizzare un referendum consultivo che porti ad inserire il concetto di “insularità” nella Costituzione italiana.

A cosa serve quest’iniziativa?

Formalmente a tante cose, sostanzialmente a nulla. Eppure in questa fase politica anche l’etichetta, come nel caso leghista e sardista, ha la sua importanza. Perché trascina con sé dibattiti, convegni, interventi sulla stampa e riflessioni anch’esse indirizzate alla diffusione di tematiche care tanto all’autonomismo quanto all’indipendentismo.

Diciamoci la verità, sotto un profilo giuridico, costituzionalizzare un’ovvietà (che la Sardegna è un’isola) non serve a modificare i termini con cui lo Stato, o i sardi stessi, amministrano l’isola. Sia perché i principi che statuiscono l’equità dell’accesso ai servizi sono già codificati, ad esempio come su trasporti e sanità (anche se nella realtà non accade). E sia perché se al concetto di “insularità” non si accompagnano precise funzioni (magari sul modello di Trento e Bolzano), l’economia e la cultura dell’isola non subiranno alcun mutamento.

Non dimentichiamoci infatti che essere un’isola non è di per sé un immutabile limite economico o sociale. Come ci insegnano isole ben più note della nostra (vedere Gran Bretagna o Taiwan), lo sviluppo è possibile solo se i suoi abitanti hanno la cultura per produrre ricchezza piuttosto che consumarla (evitando così di dipendere da altri centri di potere).

E’ sullo stesso solco che dobbiamo inquadrare l’iniziativa di Unidos di Mauro Pili, ossia di modificare la Costituzione affinché in futuro sia possibile svolgere legalmente un referendum per l’indipendenza.
Al lato pratico siamo tutti consci del fatto che la Sardegna del 2017 non è pronta ad affrontare un referendum per rendersi indipendente, tanto quanto sappiamo che pensare di avviare un iter per modificare i principi fondamentali della Costituzione italiana, e in particolare l’art. 5 che statuisce l’indivisibilità della Repubblica, di questi tempi è fantascienza.
Ciò nonostante l’iniziativa serve a cavalcare l’onda di un dibattito pubblico sull’indipendentismo che non possiamo permetterci il lusso di evitare.

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