Aristocrazie: come distinguere gli intellettuali sardi che hanno rovinato l’isola

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In considerazione dei tanti nuovi lettori che hanno gradito avvicinarsi al nostro spazio, il gruppo U.R.N. Sardinnya si appresta a celebrare i suoi dieci anni con il più complesso libro sull’indipendentismo sinora mai realizzato, mentre Sa Natzione estenderà il numero di firme ai suoi articoli. Le pubblicazioni non verranno più concentrate il primo giorno del mese ma diluite in modo tale da offrire ai lettori una informazione pluralistica più attenta e tempestiva sulle maggiori notizie dell’attualità politica locale ed internazionale.

La grande sfida del nostro tempo si gioca proprio nel campo dell’informazione. Comprendere le ragioni del declino economico della Sardegna significa comprendere le ragioni del declino culturale con cui siamo arrivati al presente. Le responsabilità non sono solo politiche ma attengono alla generale miseria conformista del nostro ceto intellettuale. Ma chi sono gli intellettuali sardi? E perché non sono riusciti ad imprimere una svolta alla condotta politica che ha amministrato l’isola?

Come sostiene anche Marco Bassani, il più grande limite di chi si è incensato del ruolo di porsi come guida morale delle “masse” è stato quello di vivere in simbiosi col potere. Per intenderci, il potere politico, quello pubblico. La stragrande maggioranza degli intellettuali sardi sopravvive grazie alla tettarella pubblica, con le natiche ben piantate in qualche ufficio spesato dai contribuenti. Si tratta di signori dalle munifiche amicizie politiche che non hanno mai gestito alcuna impresa, né hanno mai lavorato alle dipendenze di un privato.
Mentre i nostri giovani emigrano all’estero, i nostri stipendiati intellettuali dispensano consigli a buon mercato: chi, contro i renziani, invocando maggiori protezioni sociali per i più deboli; chi, i renziani, promuovendo la caccia alle streghe dell’evasione fiscale, colpevole – dicono loro – di aver sottratto soldi a chi ne avrebbe più bisogno. Nel dubbio però senza abbassarsi lo stipendio, perché dare l’esempio? Le colpe della crisi sono sempre di “qualcun altro”.
Nel dibattito politico italiano non si trova di meglio. Da destra a sinistra nessuno chiede meno tasse e meno burocrazia, ma tutti chiedono più interventi pubblici a favore di questa o quella categoria, naturalmente derubando i pochi fessi che lavorano. I neopaninari di Renzi vi derubano con l’austerity, i lepenisti di destra invocano aiuti agli italici prima che agli immigrati, mentre i nostalgici di sinistra invocano più welfare per tamponare i problemi causati da decenni di parassitismo politico a cui loro stessi non sono estranei. Per loro è sufficiente attaccare il “capitalismo”, per la gioia dei numerosi ingenui che abboccano all’amo.
Insomma, abbiamo un panorama in cui tutti ambiscono al denaro pubblico, come tossici a caccia di dosi con cui appagare temporaneamente il bisogno senza risolvere le ragioni della loro dipendenza dal denaro altrui.
Eppure la soluzione sarebbe alquanto semplice, basterebbe chiedere meno Stato per dare ossigeno al ceto medio, alle imprese ed all’occupazione. Purtroppo, e sottolineo purtroppo, i liberali si contano sulle dita di una mano. Altrimenti ci sarebbero meno boccaloni propensi a sostenere che “il posto fisso non esiste più”, perché potrebbe aumentare nel settore privato e diminuire in quello pubblico. Se poi consideriamo che costoro sono anche i primi nemici della lingua e della cultura sarda, non ci vuole molto a comprenderne il loro organicismo assistenzialista.

I nostri intellettuali, cioè la categoria con il minor tasso di suicidi dopo quella burocratica, non comprende che lo Stato ha precarizzato persino gli imprenditori, rapinandoli fino alla miseria. Per l’aristocrazia intellettuale anche il piccolo commerciante deve essere equiparato ad un Sergio Marchionne in miniatura, pronto a delocalizzare l’impresa a sfavore di tanti poveri diavoli. Ma il mondo reale è più complesso, costellato di equilibrismi per pagare i dipendenti, l’energia elettrica, la raccolta differenziata a metro quadro a non a consumo (di recente una ditta di forniture edili in crisi della Baronia ha ricevuto una bolletta da 12.000 euro per la riscossione dei rifiuti). E non è tutto, i nostri imprenditori vengono obbligati a rimanere in regola con gli attestati di conformità per la quadratura del cerchio. Pensate, l’ultima trovata del governo Renzi, quello che avrebbe voluto semplificare lo Stato tagliando le Autonomie speciali, è stata di disporre che i libretti dei titolari di mezzi aziendali dovranno coincidere coi titolari delle patenti che li utilizzano (pagando, of course). Ebbene, i nostri intellettuali, questi loschi figuri, in tutto ciò dovranno ammettere che il capitalismo ha ben poche responsabilità. Persino in questo momento il debito pubblico italiano non accenna a calare, l’austerity non ferma le spese di uno Stato che come l’universo si proietta verso un’espansione infinita. O forse solo verso il momento in cui i famosi pochi fessi che lavorano non potranno o non vorranno più pagare la religione civile della redistribuzione delle risorse. Perché lo “Stato sociale” si è trasformato nella legittimazione della rapina in conto terzi.

Adriano Bomboi.

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    3 Commenti

    • Auguri a voi! buon lavoro!

    • Grazie a lei!

    • commenti? nulla da commentare,purtroppo è lo stato delle cose,e un mondo indipentista maledettamente troppo diviso.
      saluti e forza paris

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