Von Mises: Lingua negata e crisi dell’identità nazionale. Con una premessa sul Sardo

Fra le varie filosofie politiche che hanno attraversato la storia, ben poche hanno fatto luce attorno al tema dell’identità nazionale e dei problemi ad essa correlati. In particolare, il pensiero liberale ha offerto numerosi strumenti di lettura che hanno posto l’individuo (e le nazioni) al centro della libertà. Strumenti che si sono rivelati più efficaci di altre dottrine politiche, come ad esempio il socialismo classico (che nella sua pretesa massificazione auspicava persino un superamento delle alterità nazionali), nella necessità di capire cosa sia la libertà, e soprattutto da quali fenomeni abbiano origine i limiti alla sua integrità. In questa sede ci limiteremo ad esporvi un brano di Ludwig Von Mises, probabilmente il massimo liberale del novecento, nelle sue considerazioni sul nazionalismo, e naturalmente sul versante linguistico, ancora di stretta attualità. Ma c’è un aspetto che gli amici della lingua Sarda non dovranno mai perdere di vista: la tutela del Sardo non potrà avvenire tramite l’imposizione di un progetto di standardizzazione non condiviso dalla popolazione. Qualsiasi ipotesi di ingegneria sociale sarà da rigettare.
Allo stesso tempo, non intervenire in difesa della nostra identità significherebbe piegarsi all’egemonia della lingua italiana, ancora oggi imposta dallo Stato attraverso la burocrazia, i media e l’istruzione, grazie alla forza impersonale dei contribuenti, per abbandonarci all’estinzione del Sardo. Ecco perché non possiamo arrenderci ad un genocidio linguistico perpetrato da un illiberale Stato-nazione. Il nostro approccio alla tutela della lingua Sarda dovrà essere riformistico, e non potrà eludere lo sviluppo del consenso attorno al progetto di difesa del nostro idioma, investendo in promozione ed informazione, per far capire alla maggioranza dei nostri concittadini l’importanza di dare un futuro alla nostra lingua, sia sul piano economico che culturale.
Adriano Bomboi.

“Finché i popoli erano assoggettati al dispotismo dei principi, era impossibile che attecchisse l’idea di far coincidere i confini dello Stato con quelli della nazione. […] Solo per il liberalismo la questione del tracciato dei confini statali diventò un problema indipendente da considerazioni di ordine militare e storico-giuridico. […] Esso rifiuta il diritto di conquista, ritiene assurdo che si possa parlare di confini strategici, e non riesce assolutamente a comprendere come si possa pretendere di incorporare un territorio al proprio Stato pur di impossessarsi di un bastione. […] Essere costretti ad appartenere a uno Stato che non si desidera – se a questa situazione si giunge per effetto di un plebiscito – non è meno intollerabile che esservi costretti per effetto di una conquista militare. Ma diventa doppiamente intollerabile per chi è separato dalla maggioranza dei suoi concittadini dalla barriera della lingua.
Appartenere a una minoranza nazionale significa sempre essere cittadini di seconda classe. I dibattiti politici hanno il loro strumento naturale nella parola e nella pagina scritta, nei discorsi, negli articoli dei giornali e nei libri. Ma chi appartiene a una minoranza linguistica non dispone di questi strumenti nella stessa misura in cui ne dispone chi parla la lingua-madre e di uso corrente, nella quale si tengono questi dibattiti. Se l’opinione pubblica di un popolo è il condensato delle idee espresse nella sua letteratura politica, per chi parla una lingua straniera la condensazione di queste opinioni nella forma della legge ha una importanza immediata, perché a questa legge egli deve attenersi. Tuttavia egli ha la sensazione di essere escluso dalla partecipazione attiva alla formazione della volontà del legislatore, o comunque di non potervi partecipare nella stessa misura in cui vi partecipano i cittadini che formano la maggioranza etnica. Sicché, quando compare dinanzi al giudice o al funzionario pubblico per una qualsiasi pratica che lo riguarda, egli si trova al cospetto di uomini le cui idee politiche gli sono estranee, perché sono maturate sotto altre influenze ideologiche.
Ma, anche astraendo da tutto questo, la stessa circostanza che i componenti della minoranza siano costretti a servirsi di una lingua straniera nei tribunali o nelle sedi amministrative, costituisce per molti aspetti una grave menomazione. C’è una differenza abissale, per un accusato, tra la possibilità di rivolgersi alla corte direttamente nella propria lingua e l’essere interrogato invece attraverso un interprete. Passo dopo passo, i componenti della minoranza etnica cominciano a sentirsi tra estranei, a sentirsi soltanto cittadini di seconda classe, anche se formalmente la legge lo nega.
Tutti questi svantaggi sono già difficili da digerire in uno Stato di diritto liberale, nel quale l’attività di governo si limita alla protezione della vita e della proprietà dei cittadini. Ma diventano addirittura intollerabili in uno Stato interventista, per non parlare di uno Stato socialista. […] i componenti della minoranza nazionale si sentono esposti all’arbitrio e alla prepotenza dei funzionari pubblici appartenenti alla maggioranza etnica. E abbiamo già visto prima quale significato assuma tutto questo qualora anche la Scuola e la Chiesa non siano libere ma assoggettate alle regole governative.  […] E’ un errore sforzarsi di ricondurre gli attuali fenomeni di ostilità tra le varie nazionalità a cause naturali e non a cause politiche. […] Ciò che ha fatto divampare un odio devastante tra le diverse etnie è stata la reciproca volontà di usare la scuola come strumento per sradicare i figli dalla lingua dei padri, è stata la persecuzione della minoranza linguistica da parte dei tribunali e delle autorità amministrative, attraverso le misure di politica economica e gli espropri. Nell’intento di creare preventivamente con mezzi violenti condizioni favorevoli alla futura politica della propria nazionalità, nei territori di lingua mista è stato instaurato un sistema oppressivo che mette a rischio la pace mondiale.
Finché nei territori di nazionalità mista non sarà attuato integralmente il liberalismo, l’odio non potrà che inasprirsi sempre più e scatenare guerre e rivolte permanenti”.

“Il nazionalismo”,
da Liberalismus: Ludwig Von Mises, Jena, 1927.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos

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    1 Commento

    • [...] Infine un ultima questione: se i Sardi non si sentono ancora una coesa comunità politica su base nazionalistica ciò non lo si deve sicuramente all’ideologia liberale. Perché questo limite si deve all’interventismo e ad allo statalismo pubblico, che di fatto ha tentato di eradicare e ridicolizzare la lingua Sarda per divulgare quella italiana. Il problema quindi non arriva dalla sfera individuale ma da quella pubblica, che ha operato per disinnescare nella nostra comunità quel senso di omogeneità linguistica tale per cui si sarebbe potuto sviluppare un etnonazionalismo più robusto di quello civico che conosciamo. Sono state le istituzioni ad impedire una normalizzazione della lingua Sarda sul registro formale, marginalizzando la comunicazione del Sardo quasi esclusivamente sul piano informale, e sarebbe un errore ignorare che questo fatto non abbia potuto influenzare le scelte individuali più di una supposta “egemonia culturale” del liberalismo. Sotto questo profilo dobbiamo considerare il grande impatto della tecnologia sul piano della socializzazione nella comunicazione, non a caso proprio negli anni del boom economico e con l’aumento dei media nella vita dei cittadini italiani (e Sardi) è stata ridotta – ma non annullata – la differenziazione linguistica della Repubblica. Oggi la sociologa Sherry Turkle, nel suo testo “Alone Together”, ha richiamato la responsabilità dei nuovi mezzi di comunicazione fra le concause che stanno impedendo proprio una comunicazione diretta di tipo comunitario, ormai mediata nella virtualità, e dandoci solo l’illusione di essere realmente in compagnia (2011). Come si risponde a questi problemi? Ovviamente con la politica, ma solo e sempre attraverso la legittimazione del consenso. [...]

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